DIALOGO MUTO

Il lavoro di Marina Mentoni si colloca in quello spazio sottile che separa il visibile dall’invisibile riuscendo a coniugare, con complessità e determinazione, semplicità strutturale e profondità concettuale. Dalla scelta del formato a quella del supporto fino alla tecnica e al colore nulla è lasciato al caso. La tavola di legno, solida, dai perfetti angoli squadrati, è pronta ad assumere all’interno della composizione, nonostante l’apparente uguaglianza, un ruolo ogni volta diverso. L’uso intenzionale della forma modulare, 40x80cm, consente all’artista di attuare minimi cambiamenti, lasciando sostanzialmente invariato l’impianto di base. Gli elementi che costituiscono la fase preliminare, supporto e formato, diventano in questo caso particolarmente importanti per il risultato finale. Per quanto, infatti, la variante significativa, nel lavoro di Mentoni, sia nella scelta tecnica e nell’aggiunta del colore, il fine dell’opera risulta determinato fin dall’inizio. E’ una sorta di processo irreversibile, che non da’ scampo, e che conduce nel profondo di noi stessi, non consentendo più, neanche per un attimo, di pensare a una diversa disposizione degli elementi o a un insieme differente. Una concezione rigorosa che viene espressa da ogni azione compiuta dall’artista, dall’ideazione all’esecuzione. Lo stendere accuratamente, in strati sottili, il gesso sulla tavola, sino a coprirne completamente la superficie, per quanto sia un procedimento generalmente eseguito nella fase preparatoria destinata ad essere occultata alla vista e utile soltanto a consentire un supporto idoneo ad accogliere la pittura, viene in questo caso ad assumere un ruolo importante. E’ nella successione dei gesti, lenti e attenti, con i quali l’artista stende il gesso sulla tavola, che si ottiene l’aspetto finale dell’opera. Sono le piccole increspature, che il plastico materiale crea nel suo disporsi, che consentono un punto di contatto fra noi e l’opera. E’ qui che esplode l’espressività e che si annida l’errore, l’imperfezione, affermando senza riserve quell’essere materiale naturale. Un aspetto irregolare, ma mai lasciato al caso, che l’artista controlla attentamente e che resterà sempre visibile anche dopo l’aggiunta del colore. Nonostante la stesura in strati successivi questo riesce a mantenere una trasparenza che attribuisce levità e delicatezza all’opera, costituendo una texture di segni fitti che varia in base all’incidenza della luce e affascina per la sua mutevolezza e ambiguità. Difficile descrivere le tonalità impiegate dall’artista, che trovano una loro definizione nella possibile associazione a dei materiali e, in particolare, per questa personale: grafite, nero, indaco e sabbia. Un uso singolare del colore che potrebbe sembrare incomprensibile data la privazione delle caratteristiche di energia e vitalità che in natura gli appartengono. Sembrano non esistere più il rosso, il giallo, l’azzurro. Quelle usate da Mentoni sono tinte che, più che suscitare una reazione diretta, suggeriscono ricordi contenuti nella memoria come fossero il distillato esteriore di un’emozione. Attraverso un’attenta regola compositiva, unita all’uso specifico di una precisa forma, che viene associata a un determinato colore, Mentoni crea un cifrario rigoroso che può essere paragonato a quello musicale. Se tramite l’uso delle note e la loro collocazione su un pentagramma si riesce a rendere visibile ciò che non lo è, l’artista, allo stesso modo, struttura, con le sue opere, un linguaggio preciso che non può essere compreso con il solo uso dei sensi. Se questi permettono, infatti, di percepire il mondo sensibile in modo diretto, provocando una reazione immediata, come lo sono il piacere, il dolore, il freddo, il caldo, tutto questo rimane in noi come attutito. Di questo sanno le opere di Mentoni. Parlano di esperienza, di vita vissuta, di sensazioni provate, ma come in un discorso intimo, personale, che viene rivolto unicamente alla nostra coscienza.


Cristina Petrelli

 

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